I nastri trasportatori. Cordoni ombelicali nella miniera

L’ingegner Mario Zaniboni da Ferrara, che ebbe modo di svolgere il suo apprendistato presso la miniera di Castelnuovo dei Sabbioni più o meno 60 anni fa, ci ha inviato un nuovo ricordo che pubblichiamo con piacere. Dopo la “Frana del Ronco”, uno dei primi racconti apparsi su questo blog qualche anno fa, sono recentemente arrivate al museo altre storie legate al mondo delle miniere a cielo aperto. Narrazioni che vi sveleremo anche nei prossimi mesi


A proposito della miniera di lignite di Castelnuovo dei Sabbioni, un settore che non ho per niente trattato, se non per inciso in mie altre note e naturalmente sbagliando, è quello relativo ai nastri trasportatori (o tappeti  mobili, come si preferisce), essenziali sia per far posto allo sterile estratto dai due escavatori a catene e tazze, usati per lo scoperchiamento del materiale utile e per il suo trasporto agli spanditori, delegati alla sua sistemazione più o meno definitiva, sia per fornire alla centrale termoelettrica dell’ENEL la quotidiana percentuale di lignite.

Si trattava di un servizio di competenza del perito minerario Valerio. Se ricordo bene, Valerio era un signore veramente distinto di mezz’età, sempre ben vestito e curato, come se, invece di lavorare in una miniera di lignite, luogo polveroso con odori che non hanno nulla di similare ai profumi di Chanel o qualche altra maison francese, stesse per partecipare a una soirée o a un qualche avvenimento mondano di elevato livello. Insomma, questa era stata l’impressione che ne avevo avuta. Mi ricordai di lui più tardi quando, a seguito di concorso pubblico, ero stato assegnato al Distretto Minerario di Bologna e controllavo parte delle attività estrattive dell’Emilia, Romagna e Marche, fra cui quelle di casa mia, Ferrara. Un cavatore della Provincia, che lavorava con il suo escavatore nella sua cava di sabbia ubicata nella Padania orientale, quando andai a fare un sopralluogo di routine, nel vedermi, fermò il mezzo e scese per venirmi incontro. Ebbene, appoggiata disinvoltamente sulle spalle sopra il vestito di lavoro e pendente, teneva una sciarpa di seta bianca, lunga sino quasi a terra: una di quelle sciarpe che guarniscono le marsine maschili nelle grandi occasioni mondane. Naturalmente, rimasi di stucco, ma per fortuna mi riuscì a non farlo vedere, restando indifferente. Ecco, in quel momento, ricordai il perito Valerio. Gentilissimo e ben disposto nei miei confronti, come sicuramente con tutti, egli si mise a disposizione per fornirmi tutte le delucidazioni, di cui avrei potuto fruire nel futuro professionale. Come accennato più sopra, il suo servizio era quello dei nastri trasportatori, importante nella produzione quanto quello delle tre coppie di macchine. Mi raccontò tutto quanto concerneva l’oggetto, mi mostrò i punti salienti dell’impianto, chiarendomi la funzione di tutti gli elementi delle strutture. Naturalmente, non insisto più di tanto su questioni che sono adatte a libri tecnici; però, desidero spendere due parole su come si sia giunti alla loro invenzione e al loro uso.

Storicamente, i nastri trasportatori erano nati nel XIX secolo, ma solamente nel 1901 ne fu raggiunto il perfezionamento tecnico da attribuire alla ditta svedese Sandvik, che ne approntò diversi tipi, adatti alle industrie che intendevano adottarli. Poi, fu la Ford americana, casa costruttrice di auto, a introdurla nella sua produzione, perché si era resa conto che, con l’innovazione relativa ai trasporti dei materiali, sostituendo la movimentazione a mano o con mezzi motorizzati semoventi, si conseguivano una sensibile diminuzione dei tempi e una concreta riduzione del personale: e quello veramente fu un passo in avanti verso il controllo dei tempi impiegati per le varie fasi e sotto fasi delle lavorazioni. La FIAT scimmiottò la Ford, introducendo i nastri trasportatori nelle sue aziende. Il loro uso, che si sostituiva all’intervento diretto umano, come c’era da aspettarselo, si scontrò con le organizzazioni del lavoro, per quel calo dei lavoratori da impegnare, che garantiva un miglioramento della produttività economica. Da tale situazione di fatto nacque un neologismo che, almeno da quanto mi risulta, nel presente è diventato demodé: il “fordismo”, che naturalmente deriva da Ford e si riferisce alla produzione basata sulla catena di montaggio per accrescere la produttività. Be’, non ci possono essere dubbi: la faccenda non fu per niente apprezzata dagli operai e dalle loro organizzazioni. D’altra parte, l’industriale statunitense Henry Ford, perfettamente convinto di fare per il meglio, seguì le indicazioni del connazionale Frederik Taylor, ingegnere e imprenditore, che iniziò a studiare tecniche per incrementare la produzione, basate sull’automazione. Purtroppo, non c’è che dire: il fordismo piacque a tantissimi imprenditori di diverse attività e perciò da tanti fu applicato, senza tanti scrupoli. Il ciclo produttivo prevedeva che le maestranze si sottoponessero alla disciplina organizzativa (quasi ossessiva) del fordismo che tendeva a calcolare i minimi movimenti dei corpi dei lavoratori: chiaramente, era un regime alienante, mortificante, però, a onor del vero, Ford controbilanciava con buone paghe.

Il passaggio dai nastri trasportatori a scale e marciapiedi mobili è stato breve, come lo dimostrano le varie applicazioni un po’ dappertutto: dai grandi magazzini agli aeroporti, tanto per fare un paio di esempi sotto gli occhi di tutti. Per curiosità, si può qui ricordare l’impianto di nastri trasportatori più lungo che si conosca: è lungo circa 100 chilometri ed è al servizio della coltivazione illegale dei giacimenti di fosfati presso Bou Craa nel Sahara occidentale, risorsa pressoché unica per quel Paese: serve per trasportare i circa 2 milioni di tonnellate di minerale all’anno fino al porto di Laayoune, dove, dopo essere lavato ed essiccato, è stivato nelle navi e spedito in Europa.

I nastri trasportatori mi hanno offerto l’immagine del cordone ombelicale, cioè del collegamento esistente fra placenta e feto, avente la funzione di fornire aeriformi e sostanze varie a quest’ultimo. Ecco, nella miniera di Castelnuovo dei Sabbioni, i nastri trasportatori costituirono una sorta di duplice cordone ombelicale, in cui il primo connetteva l’argilla estratta e la nuova sistemazione, mentre il secondo univa la lignite alla centrale termoelettrica: due cordoni, attivi separatamente, senza i quali  lavori ben coordinati non sarebbero stati possibili. Basti pensare, per un attimo, a cosa sarebbe successo se – malaugurata ipotesi – si fosse deciso di collegare i punti salienti dell’intero sistema produttivo con autocarri: sarebbe stata la riproduzione del fuggi fuggi generale che si attiva durante le invasioni belliche, con la creazione di un caos indicibile e indescrivibile su strade intasate, magari con mezzi in avaria che impediscono il passaggio di quelli funzionanti, ecc., ecc. Una scena del tutto impossibile, irreale e assurda! I nastri trasportatori, nonostante i mugugni dei lavoratori e delle loro organizzazioni, furono vincenti!

(Ing. Mario Zaniboni)

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