I primi di maggio del 1915 il ministro di Agricoltura, Industria e Commercio, Giannetto Cavasola, aveva convocato per una riunione che doveva restare riservatissima i presidenti delle principali associazioni industriali di categoria. Lo scopo dell’incontro era quello di conoscere dalla voce dei diretti interessati le esigenze più immediate delle diverse industrie in previsione di una entrata in guerra dell’Italia. Alle richieste del ministro gli industriali risposero che, per sostenere l’evento bellico, lo stato avrebbe dovuto garantire l’approvvigionamento delle materie prime e in particolare del carbone.
In quel momento ben pochi però avevano chiaro il concetto esatto della vastità del problema industriale e delle enormi difficoltà che si sarebbero incontrate per provvedere a tutto quello che sarebbe stato necessario a un esercito belligerante. Una previsione attendibile non era comunque possibile, perché il concetto della guerra, fino a quel momento, si riferiva a conflitti di tempi lontani e di proporzioni modeste e soprattutto perché nessuno poteva immaginare allora né la durata né le forme eccezionali che essa avrebbe assunto, né la partecipazione che vi avrebbero preso la scienza, la meccanica, la fisica, la chimica.
Si poté soprattutto constatare che un esercito al fronte, per quanto composto da uomini forti e valorosi e sapientemente diretto dallo Stato Maggiore, aveva bisogno di avere alle spalle un altro esercito. Un esercito non meno ricco e poderoso di intelligenza, di energie morali, di braccia che sfruttando e applicando nel miglior modo possibile e in mezzo a difficoltà gravissime tutto ciò che la tecnica e il progresso scientifico offrivano, producesse instancabilmente armi, munizioni e materiali di ogni genere, in quantità, qualità e proporzioni tali che solo pochi mesi prima sarebbero sembrate inimmaginabili. È evidente quindi che guidare questo poderoso esercito di produttori e di lavoratori, richiedeva un’abile e competente regia e un’attenta organizzazione.
L’Italia iniziò questo percorso con il regio decreto del 9 luglio 1915 n. 1065 che istituì la Mobilitazione Industriale. L’intera filosofia della Mobilitazione Industriale era quella di creare, alle spalle dell’esercito combattente, un altro esercito, incentrato sui lavoratori. Se l’esercito al fronte era articolato in corpi di armata, divisioni, battaglioni e reparti, l’esercito delle Officine venne organizzato con la ripartizione degli stabilimenti in 4 categorie (Armi e munizioni; Servizi logistici; Industrie estrattive; Industria varie Sanità e polverifici); in Comitati di Mobilitazione Industriale Regionale e in stabilimenti “ausiliari”, suddivisi per categorie e il cui numero aumentò progressivamente negli anni. Tutto questo esercito di officine, per poter produrre incessantemente per le Divisioni militari al fronte, necessitava di ingenti quantità di materie prime.
Fino alla metà del 1914 l’Italia aveva potuto approvvigionarsi per il suo fabbisogno senza particolari difficoltà, ma lo scoppio della guerra pose problemi di ordine completamente diverso e gli scambi diventarono più difficili e costosi. La carenza di carbone che ne conseguì non mancò di sollevare problemi gravi e di difficile risoluzione. Il carbone era infatti utilizzato non solo nelle attività civili (illuminazione, riscaldamento delle città) ma anche in quelle legate strettamente alla guerra. Con il passare dei mesi la situazione diventava sempre più complicata: lo Stato non era in grado di soddisfare la crescente domanda di carbone e il governo si sforzò di trovare fonti energetiche alternative, creando il Comitato per i combustibili nazionali che in seguito a ispezioni e censimenti rese nota la Carta dei giacimenti di combustibili fossili italiani, in cui erano segnalate le presenze di antracite e lignite, petroli e idrocarburi. Al numero diciannove dell’elenco figuravano i giacimenti di lignite del Gruppo del Valdarno.
La Mobilitazione Industriale trovò in Valdarno un vero e proprio “arsenale minerario”: il bacino lignitifero, la centrale elettrica, la ferriera di San Giovanni costituivano un prototipo di insediamento industriale integrato in un ciclo produttivo lungo: minerario elettro siderurgico. La SMEV, fornitrice di un bene primario, venne inclusa nel primo decreto di ausiliarietà (n. 1 del 4 settembre 1915). Stessa cosa anche per la ferriera, che si trasformò rapidamente in una “fabbrica di guerra”. La chiusura dei mercati internazionali del carbone e la ricerca febbrile di fonti di energia alternative avevano reso l’intero bacino minerario una risorsa strategica per l’intero esercito delle officine, quindi per “l’umile e negletta lignite di Cavriglia” si accesero le luci della ribalta e tecnici, osservatori e riviste specializzate non mancarono di annotarne il valore nazionale.
Le leve del potere economico valdarnese erano saldamente nelle mani di Arturo Luzzatto. Come è noto, egli non era solo presidente della SMEV e delle Ferriere ma anche deputato del collegio di Montevarchi dal 1900. Il suo nome era associato a ogni iniziativa in ambito imprenditoriale, filantropico, culturale e sociale della zona. Le “preziose” miniere di lignite si trovavano, invece, nel territorio del Comune di Cavriglia, che a partire dagli ultimi trenta anni dell’Ottocento aveva subito grandi trasformazioni, che lentamente avevano segnato il passaggio da una cultura prevalentemente rurale a una industriale e mineraria. Le cifre della produzione di lignite nel bacino di Cavriglia negli anni di guerra parlano chiaro: dalle 533.000 tonnellate del 1914 si passò a 929.000 nel 1919. La metà della lignite estratta veniva smaltita subito, con le consegne alla centrale termoelettrica e alla ferriera. La lignite che qualche anno prima giaceva invenduta nei piazzali ed era stato motivo di scontro fra minatori e direzione, venne rapidamente esaurita, mentre si arrivò a immettere in commercio la pezzatura ancora umida per soddisfare le crescenti richieste.
Che l’arsenale minerario del Valdarno fosse tenuto in debita considerazione, lo dimostrano le visite nel bacino minerario di autorevoli esponenti militari e politici. “La Provincia” a tale proposito scriveva: l’industria cittadina del nostro Valdarno visse una di quelle giornate che da tempo non si ripetevano […] Si trattava di inaugurare le nuove acciaierie della Società ferriere italiane esercitata dall’Ilva e vi intervennero autorità civili e militari sì del capoluogo che di Firenze […] il maggior Toniolo, vari Sindaci, ufficiali, funzionari delle ferrovie e rappresentanti delle società industriali in gran numero. Anima di tutto era l’ing. Arturo Luzzatto, amministratore delegato delle ferriere […] Gli ospiti assisterono alla prima colata dell’acciaio che riuscì superbamente e suscitò viva ammirazione. Con treno speciale tutti furono poi condotti a Castelnuovo dei Sabbioni a visitare le miniere di lignite dove pure il lavoro si è intensificato grandemente e ci si trovano anche cento prigionieri di guerra che mettono allo scoperto un nuovo importante banco di lignite. Poi fu la volta: della centrale termo-elettrica poco distante e anche qui la visita riuscì interessantissima per la constatazione del macchinario perfetto e l’importanza dell’impianto[…] Tanto alle ferriere che alle miniere furono serviti dei suntuosi rinfreschi e al ritorno a San Giovanni alla sera fu offerto nel teatro Masaccio un banchetto dai membri delle acciaierie […].
La SMEV, con il suo presidente Luzzatto, seppe sfruttare dunque questa sua posizione di rilievo, tanto che era una delle imprese che interloquiva direttamente con il governo. In una lettera del 2 febbraio 1918, estremamente attuale, consultabile presso il Museo Mine, Arturo Luzzatto scriveva a Francesco Saverio Nitti, Ministro del Tesoro, “dandogli del tu”, facendo adeguatamente pesare il proprio contributo alla guerra in corso e presentando senza problemi il proprio punto di vista. Il ruolo centrale assunto dalle miniere era reso possibile perché l’esercito dei minatori combatteva quotidianamente nelle viscere della terra come l’esercito al fronte combatteva nelle trincee, in mezzo a rischi e a difficoltà che non erano poi tanto lontani da quelle dei militari in prima linea. Gli echi delle sciagure minerarie facevano da contrappunto a quelle di guerra. Gli infortuni, temuti e spesso gravissimi, funestarono l’intero periodo della produzione di guerra. La disciplina militare introdotta dalla Mobilitazione Industriale, più che stravolgere, integrò e applicò in maniera più severa i regolamenti interni già esistenti. Il dipendente esonerato dalla chiamata al fronte indossava un bracciale tricolore di riconoscimento e doveva assoluta obbedienza ai superiori. Una minaccia costante incombeva sul minatore: la revoca del provvedimento di esonero con il contestuale invio al fronte, ma per la particolarità delle competenze di molte categorie di maestranze presenti nel bacino minerario, queste non potevano essere immediatamente e facilmente sostituite, da qui l’alto numero di esonerati.
Il clima di militarizzazione non impedì che si sviluppassero ugualmente una serie di rivendicazioni. I lavoratori avevano iniziato ad acquisire maggiore consapevolezza del loro ruolo e proprio nel settore minerario le relazioni industriali subirono una trasformazione, che determinò l’introduzione di una minima dialettica organizzata fra le parti. La peculiarità del lavoro del minatore determinò l’impossibilità di banalizzare e squalificare l’arte mineraria. Pertanto i minatori iniziarono a porsi come interlocutore compatto, difficilmente impressionabile anche dalla minaccia di un invio al fronte. Nel periodo di guerra i minatori ottennero degli aumenti salariali e conquistarono, dopo un lungo braccio di ferro, la giornata lavorativa di 8 ore. Nel biennio 1917-1918 l’andamento salariale giornaliero degli addetti del settore minerario conobbe un aumento medio di circa il 40%.
Con la fine del conflitto, per i protagonisti del bacino minerario si aprì una stagione di bilanci. In Valdarno il clima della smobilitazione non tardò a farsi sentire smorzando i toni euforici di qualche anno prima. La richiesta della lignite crollò e con essa l’occupazione in miniera: per i minatori iniziarono tempi difficili e tumultuosi. Per Arturo Luzzatto, iniziò il declino politico e imprenditoriale.
Per il Comune di Cavriglia arrivò il termine del mandato del commissario prefettizio Angelo Orlandella, ma già nel 1916 si era avuta la svolta: il Comune aveva ceduto alla SMEV alcune strade e terreni comunali, con le quali poté saldare quasi del tutti i debiti. Successivamente “L’Appennino” dette notizia: “in seguito alla tassazione di vari ed importanti fabbricati di nuova costruzione che ha portato alle finanze del Comune un buon contributo; il bilancio Comunale è venuto tanto a rinsanguarsi ed a consolidarsi da assicurare per sempre un sicuro e regolare funzionamento. E così il Comune di Cavriglia, superata precocemente la GRAVE CRISI che da lungo tempo era colpito; sorgerà a vita novella ed in condizioni così floride da divenire uno dei migliori d’Italia”.
(A. Caselli)