Per un museo come MINE che ospita il parente povero del carbone, ci pareva curioso raccontarvi un po’ la tradizione della Befana. Queste vecchiette sono di tanti tipi e la loro storia si perde nel tempo accomunando popoli. In Valdarno siamo abituati a festeggiare l’Epifania con una fantoccia. Il dolce, tipico del nostro territorio fa bella mostra di sé nei negozi già i primi giorni dell’anno e nelle case ognuno, seguendo la ricetta di famiglia, sperimenta la costruzione della propria fantoccia.
Nell’immaginario collettivo la Befana è una vecchia goffa, vestita di cenci, dallo sguardo non troppo benevolo che, passando di casa in casa, reca buon auspicio per l’anno nuovo, lascia doni e chiede a sua volta un obolo rappresentato da frutta secca, fieno per l’asinello, legna per ravvivare il fuoco nel camino della casa visitata. Fino al secondo dopoguerra superava, nel sentire popolare, il Natale il quale era riconosciuto come importante festa religiosa e nulla più, mentre era proprio durante la notte dell’Epifania che si ripeteva un rito ancestrale lontano nei secoli ma sempre presente nel sentire comune. La Befana, o la vecchia, che con la sua compagnia visitava le case del paese, si presentava sempre con il proprio marito, o il vecchio e con una giovane figliola alla quale bisognava trovare un po’ di dote perché si potesse sposare e sposandosi potesse “proliferare”. Si tratta di una semplice simbologia: il matrimonio e la sua fecondità rappresentano la fertilità della terra.
La tradizione, antichissima e legata alla ritualità pagana, si è modificata nel tempo come ogni manifestazione che si rispetti; ma sicuramente una forte influenza sull’antico rito fu esercitata dalla chiesa cattolica che dopo il concilio di Trento (1563) cominciò a curarsi in maniera “particolare” delle campagne nelle quali erano sopravvissuti riti pagani legati alle primitive religioni animistiche. Questo spiega il tenore teologico di certi canti beneaugurali tramandati a memoria in Valdarno e l’assimilazione del peregrinare della befana al viaggio dei Magi verso la capanna di Betlemme e la promiscuità tra sacro e profano nella befanata.
In Valdarno la befanata si svolgeva nella medesima maniera in tutte le zone: un gruppo di uomini si mascheravano secondo i vari personaggi e accompagnati da un poeta, che non si travestiva e da un suonatore, giravano nelle famiglie per salutare, augurare un buon anno e questuare un po’ di uova, picce (i fichi secchi con dentro noci o altro), noci o altri alimenti disponibili nelle case contadine. Il rito era semplice: davanti alla porta di casa il poeta chiedeva, improvvisando ottave, di fare entrare la compagnia della quale si faceva garante; una volta entrati i “befani” intonavano un canto beneaugurale e successivamente inscenavano, improvvisando, una scenetta nella quale si organizzava lo sposalizio della figlia dei vecchi. D’un tratto la vecchia si accasciava al suolo moribonda, a quel punto il vecchio disperato cominciava a pregare i presenti perché facessero qualcosa per la sua povera moglie che dopo un po’ di preghiere con un poco di vino si rimetteva in forze principiando un ballo col vecchio e coinvolgendo a mano mano tutta la famiglia. Terminato il ballo i befani raccoglievano le offerte in un canestro (crine) acconciato per l’occasione e il poeta intonava qualche ottava di ringraziamento. Da quel momento cominciava in quella casa il carnevale. Quella stessa notte i bambini della casa avrebbero preparato vicino al camino un po’ di fieno e un fastellino di legna per la “vera” befana che si sarebbe fermata un momento per rifocillare il proprio asino e per scaldarsi un po’. Un testimonianza in tal senso la fornisce Giuliano Pagliazzi, nato a Cafaggio presso Le Corti nel Comune di Cavriglia nel 1925, che nelle sue memorie scrive: «la Befana era una vecchina che arrivava con un barroccino carico di regali tirato da un asinello, scendeva, calando dal camino, nelle case di tutti i bambini buoni lasciando i regali, poi si scaldava con la legna e prendeva il fieno per il suo asinello. Per aspettare la Befana qualche giorno prima si andava alle Querci del Grillo – conosciuto come i Quercioni – a fare dei fastellini di rami secchi o scope che venivano chiamati “i fastellini della Befana”». Era usanza prima della guerra – la seconda guerra mondiale – nella terra delle miniere preparare questi fastellini assieme al fieno che venivano fatti trovare ai bambini la sera del 5 gennaio. Allora non c’era Babbo Natale ma la Befana, era lei la star delle feste ed era lei che chiudeva il vecchio anno e apriva con buono auspicio quello nuovo. Dopo la seconda guerra mondiale colla dissoluzione della civiltà contadina, il progresso economico e lo spopolamento delle campagne l’Epifania è restata esclusivamente la festa dei bambini e la Befana si è trasformata nella “fata benigna” che porta dolci e giochi ai bambini buoni e cipolle e carbone a quelli cattivi.
La Befana è sempre stata festeggiata in passato nel bacino minerario. Ci sono foto negli archivi del museo che ci raccontano dei doni che la Mineraria portava ai bambini, i figli dei minatori ma ci sono anche le foto della Befana di guerra, quella che gli alleati festeggiarono con la popolazione il 6 gennaio 1945. Le foto le aveva scattate Leo Camici. La vecchina non si vede ma in compenso mentre un soldato è intento a mescolare in enormi pentoloni del liquido caldo che poi viene distribuito alla popolazione, altri militari sono pronti a regalare qualcosa ai bambini (e di solito erano cioccolate e dolci). I più piccoli in calzoni corti e le bambine con le gonne al ginocchio e i calzettoni arrotolati scorrazzano in lungo e in largo lungo la via dei negozi del vecchio paese di Castelnuovo, la via che oggi non esiste più. I più grandi con ceste di vimini accolgono i doni e tutti festeggiano la prima Befana senza guerra. Si chiacchiera, si scherza, si sorride… Davvero un buon auspicio!
(P. Bertoncini)