Carlo Roncolini alla Grande Guerra

Un anno fa arrivò al museo una registrazione portata da Piero e donata dai familiari di Carlo. Una storia in ottava rima che ripercorreva un episodio importante: la partenza di Carlo per il Cadore, soldato alla Grande Guerra.  Carlo poi era tornato a vivere in una terra complicata, fra agricoltura e miniere, alle Radicchie, poi allo Stummiese, due poderi non lontano da San Donato in Avane. Si era sposato con Antonia ed aveva avuto 3 figli.

La grande guerra conserva ancora oggi quel fascino marziale che dava lustro agli ufficiali di carriera delle potenze nazionaliste dell’Ottocento ed appare come l’ultima guerra delle «buone maniere» e nello stesso tempo come la prima guerra moderna, catastrofica per soldati e civili e capace di piegare le nazioni come mai nessun altro conflitto era riuscito a fare fino a quel momento. Tra le 5.615.000 persone mobilitate dall’Italia nei quattro anni di guerra si trovava col grado di soldato semplice anche Carlo Roncolini (1882-1969) che, come molti altri suoi concittadini, fu coscritto e destinato al fronte del Cadore. Mezzadro presso la fattoria di Renacci,  trascorse poi la sua vita in una terra che sarebbe stata ingoiata dalla escavazione mineraria. Amante dell’ottava rima[1] ne utilizzò il linguaggio per raccontare le sue vicissitudini belliche e lasciarne memoria ai posteri. Versi tramandati a veglia, una volta tornato a casa, poi registrati dal maestro Elio Deci che portava gli alunni della sua classe a sentire la storia della Grande Guerra dalle parole di Carlo. 

L’ottava rima, ma il canto, la poesia in generale, erano il veicolo prediletto dalla popolazione toscana per tramandare oralmente la memoria dei fatti che si ritenevano importanti. Degli accadimenti di cronaca, di costume, di politica che assumessero una certa rilevanza si provvedeva a “cavarne” la storia da cantarsi pubblicamente nelle occasioni che si fossero presentate. È così che Roncolini affida al metro delle cose importanti la sua storia, che egli ritiene importante e che dunque deve avere solennità e il linguaggio solenne, almeno fino al secondo dopoguerra, nelle campagne toscane era la poesia. Diffusa capillarmente, era compresa, era usata con frequenza quotidiana, era riconosciuta come importante ed era rispettata. Il poeta assumeva un ruolo di raccordo del pensiero comune all’interno delle comunità perché grazie alla sua capacità di improvvisare aveva sempre parole da dire in ogni circostanza. Così i poeti, di fronte alla drammaticità, e all’imponenza di una guerra, hanno affidato ai versi le loro narrazioni. Siamo abituati a pensare “poeti in trincea” come Giuseppe Ungaretti e Clemente Rebora ma con loro, magari sparando gomito a gomito da qualche feritoia, c’erano i poeti popolari di ogni parte d’Italia che affidavano ai versi le loro passioni e le notizie da recapitare ai propri cari. In Toscana non sono rare le lettere spedite a casa in ottava rima, resoconti e diari tenuti in versi, memorie affidate al metro dell’ottava e cantate nella necessità di esorcizzare la guerra, di mettere in guardia i giovani dalla sua crudeltà.

Questo vale anche per la seconda guerra mondiale che pur mutando lo scenario bellico non muta il linguaggio utilizzato per raccontare  ai posteri; se ne possono trovare esempi, riferiti alle due guerre, nelle pubblicazioni della collana «E qui a parlar conviene» curate da Dante Priore e Carlo Fabbri per conto del Comune di Terranuova Bracciolini; nel volume “Le ottave del Beini” curato da Pilade Cantini e pubblicato da Titivillus nel 2010, dove Emilio Pallesi, poeta di Santa Croce sull’Arno (PI) ricorda in ottava rima la grande guerra; Natale Masi nel libro curato da Alessandro Bencistà nel 2016 dal titolo «Dalla terra di Vinci fiorentino. L’improvviso di Natale Masi» pubblica anche le lettere spedite alla moglie in ottava rima. C’è poi il testo forse più conosciuto, «Li romani in Russia» di Elia Marcelli e portato in scena da Simone Cristicchi. Versi ed ottave compaiono spesso negli inediti conservati in molti archivi e soprattutto nella memoria delle persone più anziane che, purtroppo, vanno a mano a mano morendo portando con sé un patrimonio destinato all’oblio.

(P. Bertoncini)


[1] Forma improvvisata di poesia popolare consistente in stanze di otto versi i quali rimano tra loro secondo lo schema noto ai lettori del Tasso e dell’Ariosto.

Le ottave di Carlo

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