1915: un escavatore per le miniere….

Quando parliamo delle miniere di Cavriglia siamo abituati a pensare alle grandi macchine che 50 anni fa avevano iniziato a scavare la lignite a cielo aperto. Macchine di fabbricazione germanica, grandi, imponenti, lente nei movimenti sul terreno ma con lunghe braccia meccaniche e cucchiai alle estremità in grado di asportare tonnellate di lignite in un giorno.

Anche in passato c’erano stati momenti durante i quali le miniere di lignite erano state a cielo aperto. Lo furono all’inizio, nella seconda metà del 1800, quando con grandi terrazzamenti si scavava a mano il combustibile fossile…aiutati da alcune macchine con grandi cucchiai – come avvenne nella miniera di Castelnuovo – Montetermini – e lo sono state poi durante la Prima Guerra Mondiale.  Questa è una storia datata 17 marzo 1915. Nelle miniere del  Valdarno  a quell’epoca si parlava già di un escavatore in grado di asportare lignite, da impiegarsi in cave a cielo aperto. L’idea era stata proposta all’ingegner Tonani per poter avere un mezzo meccanico da impiegare nel lavoro. Le miniere all’epoca erano già tutte in galleria e il lavoro del minatore era cambiato nel tempo, soprattutto rispetto agli ultimi decenni del XIX secolo, periodo nel quale si ponevano le basi per una duratura industria estrattiva. La Prima Guerra Mondiale stava ormai imperversando in Europa e presto avrebbe riguardato anche l’Italia. Il mercato dei carboni era uno di quelli a risentire maggiormente delle vicende belliche e così anche le miniere del Valdarno furono ben presto interessate dall’economia di guerra, tanto che nel territorio il detto “quando la miniera ride l’uomo piange” rappresentava proprio un’allusione ai momenti di prosperità che le miniere godettero durante i grandi conflitti mondiali.  Fu proprio durante la Grande Guerra che le miniere del Valdarno raggiunsero un numero di addetti importante (quasi 5000 persone) e le cave a cielo aperto furono un momento di lavoro che si affiancò all’estrazione in galleria.

La richiesta per un escavatore la Società Mineraria l’aveva ricevuta dalla Franco Tosi di Legnano, un’industria meccanica importante. Del resto a loro si dovevano già le turbine della centrale di Castelnuovo e i rapporti fra le due società probabilmente erano in corso da tempo. Per chi ne sa poco della storia dell’industria meccanica in Italia possiamo dire che la Franco Tosi, ancora oggi esistente anche se con vari passaggi di proprietà nel tempo, era un’azienda nata nel 1874, poco dopo la Ferriera di San Giovanni Valdarno e già a fine Ottocento aveva prodotto macchinari per la centrale elettrica di Milano. Un’industria che nei primi anni del Novecento fu in grado di sviluppare un motore a vapore, poi diesel. Passata la guerra il mercato legato alla produzione di macchinari per le centrali elettriche aumentò e la Franco Tosi fornì il necessario per l’attivazione della Centrale Montemartini di Roma (dal 1997 museo che ospita una selezione di reperti archeologici dei Musei Capitolini). L’attività dell’industria milanese crebbe nel secondo dopoguerra e l’azienda continuò a rifornire con i propri macchinari le centrali elettriche presenti in Italia ampliando il proprio mercato verso i paesi di tutto il mondo.

L’escavatore che nel marzo 1915 fu proposto alle miniere del Valdarno aveva una lunghezza di 15 metri, non era una macchina piccola ed era in grado di lavorare con energia elettrica. Eventualmente poteva lavorare anche con motori a vapore, con apposite modifiche, come ebbero cura di precisare dall’azienda. La macchina era formata da una cabina, dove avrebbe lavorato un “minatore – guida”, poi c’erano il braccio pescante o delle secchie e tutti i  dispositivi necessari per lo scarico del materiale. La cabina, 2.5 x 2.5 x 5 metri poteva avere al suo interno tutti i meccanismi adatti al lavoro. Il braccio di scavo, lungo 8 metri, era dotato di un sistema snodato all’estremità, caratteristica utile all’escavazione; un braccio particolare in modo da poter lavorare sia verso il basso che in trincea. Per sostenere le secchie era prevista un’armatura in ferro dalla quale grazie ad apposite passerelle si poteva accedere alla cabina di comando e controllare al tempo stesso il lavoro. Ogni “secchione” era in grado di contenere 75 litri di materiale scavato. Il funzionamento della macchina avveniva con un innesto a frizione dalla cabina di controllo. Per lavorare con la macchina non era necessario un gran numero di addetti: servivano solo l’operatore in cabina e il sorvegliante al controllo del braccio di scavo (la guida a terra). Lo scarico del materiale scavato veniva depositato direttamente sui dei vagoncini sottostanti attraverso una serrandola manovrabile a mano. Su richiesta l’escavatore poteva essere munito di un nastro trasportatore lungo fino a 25 metri. Venne fatta anche un’analisi per capire esattamente la quantità di materiale che si sarebbe scavato con questa macchina, circa 45-50 metri cubi di lavoro. Il montaggio della macchina sarebbe avvenuto presso il bacino di scavo… e tutta l’operazione sarebbe costata alla Società Mineraria £ 30.000.

Non ci sono documenti che ci confermino che l’escavatore fosse realmente giunto nel bacino minerario. Ci sono però vecchie fotografie che ci mostrano come per un certo periodo di tempo, molto prima del progetto di escavazione a cielo aperto redatto dall’ingegner Otto Gold, un escavatore a benna mordente affiancasse in tempi “non sospetti” il lavoro dei minatori del Valdarno. 40 anni dopo le macchine sarebbero arrivate davvero, assemblate sui piazzali delle miniere avrebbero scoperchiato il banco di lignite permettendo alle miniere del Valdarno di stare nel mercato delle ligniti nella seconda metà del secolo scorso, continuando a produrre energia elettrica.

(P. Bertoncini)

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